giovedì 11 novembre 2010

Medico e psicologo nello stesso ambulatorio. La prevenzione che nessuno vuole finanziare

Luigi Solano, docente dell'Università La Sapienza di Roma, da dieci anni mette in pratica la sperimentazione. Abbattendo i costi della spesa farmaceutica del 20%. Ma la sua ricerca non trova fondi per andare avanti

Quante volte il vostro medico di base vi ha trattati come “malati immaginari”? Quante volte, uscendo da quell’ambulatorio, avete dovuto comunque fare i conti con ansie, dubbi e paure? La psicosomatica contemporanea, branca di studio a cavallo tra la psicologia e la medicina, si occupa proprio di questo, producendo una vasta gamma di ricerche e sperimentazioni. “Umanizzare” la pratica medica, può voler dire anche mettere fisicamente nella stessa stanza medici di base e psicologi. E’ quello che sta facendo da 10 anni il Professor Luigi Solano, docente di Psicosomatica della facoltà di Psicologia all’Università la Sapienza di Roma, che racconta: “La nostra esperienza ha aiutato molte persone a scoprire che spesso la malattia è strettamente collegata alla particolare situazione che si sta vivendo. E questo può avere un effetto molto più potente di qualsiasi farmaco”.



Cosa vi ha spinto a intraprendere questa esperienza di “copresenza” di medico e psicologo nell’ambulatorio di base?

Bisogna partire da due considerazioni. Da una parte i medici fanno sempre più fatica a occuparsi del paziente in quanto persona, e quindi ad accogliere tutta quella quota di disagio (che ormai è stimata almeno al 50%) che pur presentandosi come somatico, nasconde in realtà tutt’altre origini, che sono di natura psicosociale. Dall’altra bisogna fare i conti con i pregiudizi molto forti che ancora gravano sulla psicologia clinica. Dal medico siamo abituati ad andarci tutti. Ce l’abbiamo da quando nasciamo, e ci viene assegnato gratuitamente. Con l’idea che siamo anche tenuti ad andarci quando stiamo male. Dallo psicologo, invece, c’è l’idea che ci vanno solo alcune persone un po’ particolari. Il risultato è che, parafrasando la famosa battuta di Woody Allen: “Si va dallo psicologo soltanto dopo essere stati a Lourdes”.
Lo studio medico quindi ci è sembrato il luogo elettivo per inserire la figura dello psicologo, con il compito di affiancare il medico e raccogliere la domanda di tutti coloro che si presentano. Questo ci consente di intervenire nelle prime fasi del disagio.

Ci descrive la ricerca vera e propria?

La nostra esperienza è stata condotta all’interno della Scuola di specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università “La Sapienza” di Roma, che dipende dal Dipartimento di Psicologia Dinamica e Clinica, ed è stata svolta come forma di tirocinio per gli specializzandi. Si tratta di psicologi laureati e abilitati che io supervisiono regolarmente, discutendo tutti i casi.

La nostra esperienza va avanti ormai da dieci anni. Hanno partecipato 11 psicologi, sono stati coinvolti 8 studi medici, ciascuno per la durata di 3 anni.

Lo psicologo è presente una volta a settimana nello studio medico e vede tutti i pazienti, tranne quelli che fanno esplicita richiesta di essere visitati unicamente dal medico (questa evenienza si è presentata solo 4 volte). Questa impostazione si è dimostrata già sufficiente per produrre dei risultati e degli effetti.

Lo psicologo ascolta quello che la persona dice e interviene nel contesto della visita. In alcuni casi, non frequenti, propone degli incontri a parte (al massimo dieci) durante i quali sviluppa il problema insieme alla persona. In un numero ancora più ridotto di casi si arriva a fare un invio il più possibile corretto a specialisti della salute mentale.



I problemi vengono quindi già “risolti” nel contesto ambulatoriale?

Il nostro scopo non è primariamente quello di curare le persone, ma di dare un senso al sintomo che viene portato, soprattutto se esso è di natura somatica, all’interno del contesto di vita della persona. Questo è nella maggior parte dei casi sufficiente ad arrestare un percorso medico che porta a spese inutili, a un’etichetta di malato, o addirittura – quando la persona non trova ascolto – a una escalation di disturbi sempre più gravi. Il senso primario del nostro lavoro è far sì che la persona esca dallo studio medico non pensando di avere una malattia ma pensando di avere un problema.

Spesso abbiamo sentito il paziente dire: “Da un mese ho delle vertigini, vorrei fare una Tac”. Se questo problema non trova un ascolto adeguato, il medico prescriverà la Tac. Se disgraziatamente questa dovesse rilevare qualche reperto casuale, si rischia di arrivare a sottoporsi a ulteriori e più invasivi esami innescando un circuito perverso che può rivelarsi anche rischioso per il paziente.



Come hanno reagito i medici alla presenza dello psicologo nel loro “santuario”?

Intanto, trattandosi di persone che hanno accettato di aderire all’esperienza, non possiamo considerarli un campione rappresentativo della categoria… Abbiamo evitato medici che avessero specializzazioni in psicologia. Il problema più frequente è stata la tendenza del medico a identificare i casi “da psicologo”. Ma il nostro compito è quello di identificare il disagio che non si vede.



E i pazienti?

Una recente inchiesta dell’Ordine degli psicologi del Lazio ha mostrato che solo il 5% delle persone è mai entrato in contatto con uno psicologo nell’arco dell’intera vita, comprese tutte le occasioni di formazione, selezione aziendale e così via. Si tratta di una quota bassissima. In una situazione così difficile, nel momento in cui lo psicologo sta lì per tutti, e non si corre il rischio di venire etichettati, cambia tutto. Le persone si sentono improvvisamente legittimate a parlare di cose che non siano il disagio somatico e i sintomi.



Quanti pazienti hanno partecipato all’esperienza?

In tre anni ogni psicologo ha registrato l’incontro con 700 persone su 1500 circa. Tra queste è stato riscontrato un disagio psicosociale a volte anche piuttosto serio nel 40-60% dei casi. Questo dato corrisponde alle stime della quota del disagio non di origine organica che arriva al medico di base che sono sempre state fatte, a cominciare da Balint negli anni ‘50. Il disagio riguarda per lo più problematiche coniugali, familiari, tra genitori e figli, le dinamiche con la famiglia di origine o le problematiche legate alle fasi del ciclo di vita: scuola, lavoro, pensionamento. Insomma, tutti i passaggi cruciali della vita.

Ciascuno psicologo è riuscito ad effettuare un centinaio di interventi con risultati abbastanza soddisfacenti. Si tratta di numeri che non hanno niente a che fare con l’utilizzo che viene fatto comunemente della psicologia, che finisce per occuparsi quasi esclusivamente dei casi che richiedono un lavoro molto approfondito. Nel nostro esperimento invece può essere sufficiente un intervento molto limitato per cambiare il corso degli eventi.



Siamo quindi nel campo della prevenzione.

Sì. Siamo sicuramente più nell’ambito della prevenzione che in quello del trattamento della patologia.



Esistono esperienze simili in altri paesi?

Sappiamo di esperienze di colloqui congiunti con lo psicologo, anche in termini di formazione universitaria, ma sempre in casi selezionati. Quando il medico cioè ritiene che quel caso sia per lo psicologo. Questo lascia fuori tutta una quota di persone che potrebbero averne bisogno, come i giovani affetti da patologie organiche serie. Noi ci rifacciamo al modello “biopsicosociale” e pensiamo che qualunque tipo di malattia, anche quella realmente organica, sia legata alla situazione di vita.



Avete riscontrato variazioni nella quantità di farmaci prescritti dal medico?

Abbiamo avuto difficoltà ad ottenere dati sulla spesa sanitaria dei medici che hanno partecipato all’iniziativa. In un caso che mi fa piacere citare – il dottor Cappelloni di Rieti – siamo riusciti ad analizzare la spesa sanitaria nel 2007, quando lo psicologo non c’era, e a paragonarla con quella del 2009, dopo due anni di “copresenza”. Abbiamo riscontrato una riduzione della sola spesa farmaceutica (escludendo quindi tutte le spese per esami di laboratorio), sul totale degli assistiti, di 75.000 euro l’anno, rispetto a una spesa totale di circa 400mila euro.



Una riduzione dei costi pari quasi al 20%. Cosa comporta questo?

Intanto un grosso danno per le case farmaceutiche. Non mi soffermo su questo dato e sulle conseguenze negative che potrebbe avere per il nostro progetto. Mi sembra comunque importante osservare che con questo risparmio si può pagare lo stipendio a due psicologi, ciascuno dei quali potrebbe coprire due studi medici. Immaginando una presenza di un paio di turni presso ciascuno studio medico, si riesce a coprire un gran numero di assistiti.



Alla fine di questi tre anni, come reagivano i pazienti alla “scomparsa” dello psicologo?

Questo è stato un bel problema. I pazienti, ma anche i medici, sono sempre molto dispiaciuti. D’altra parte i tentativi fatti finora per trovare una forma di retribuzione che ci consentisse di prolungare la permanenza degli psicologi non sono andati a buon fine.



Cosa deve succedere perché questo esperimento si possa trasformare in realtà?

Innanzitutto si dovrebbe fare una sperimentazione ufficiale, concordata con la Asl, con persone già formate, su almeno 4-6 ambulatori, per poter verificare in modo più preciso i benefici su pazienti e medici, e gli effetti sulla spesa sanitaria.


 Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/06/medico-e-psicologo-nello-stesso-ambulatorio-la-prevenzione-che-nessuno-vuole-finanziare/68497/

mercoledì 4 agosto 2010

Conversazione sulle politiche della relazione di aiuto con Alberto Zucconi

di Maurizio Mottola

Da mercoledì 30 giugno a domenica 4 luglio 2010 si è svolto a Roma il Congresso Mondiale Empowerment: The politics of the helping relationship - Le politiche della relazione di aiuto, organizzato dall’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona, ACP-Italia e World Association for Person-Centered and Experiential Psychoterapy and Counselling (WAPCEPC). Allo psicologo e professionista Alberto Zucconi, presidente dell’Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona (IACP) e presidente del congresso, abbiamo posto alcune domande.
 Quali sono stati i principali apporti del congresso?
Circa 650 professionisti provenienti da 35 nazioni del mondo hanno presentano una crescente mole di ricerche e di esperienze nel settore delle relazioni di aiuto che confermano ulteriormente le ipotesi formulate da Carl Rogers, il fondatore dell’Approccio Centrato sulla Persona, il noto psicologo statunitense che ha creato anche in Italia l’omonimo istituto.
Egli ha prima sviluppato il suo approccio nel campo della psicoterapia per poi estenderlo a tutte le altre relazioni di aiuto: counselling, assistenza sociale, rapporto medico/paziente, insegnamento, gestione delle risorse umane, eccetera. Rogers è stato il primo a formulare un approccio scientifico per la promozione del cambiamento basato sulla salute e sullo sviluppo delle innate potenzialità umane attraverso la qualità della relazione tra professionista ed utente ed efficaci azioni di empowerment. Conducendo con successo una battaglia di liberazione, che ha beneficiato allo stesso tempo gli utenti e professionisti e democratizzato il mondo delle relazioni di aiuto, Rogers si è guadagnato l’appellativo di rivoluzionario silenzioso.
E’ dimostrato scientificamente che è necessario evitare di passivizzare gli utenti perché questo comporta dei rischi iatrogeni di instaurare in tal modo una impotenza acquisita. In altri termini un professionista ha bisogno di chiedersi se a volte non rischi anche inconsapevolmente di divenire parte del problema invece che della soluzione. E’ sempre più evidente che una buona relazione interpersonale, una vera e propria alleanza di lavoro tra professionista ed utente è parte integrante della “cura”. Le ricerche presentate al congresso riguardano in particolare i professionisti appartenenti ad una delle cosiddette relazioni di aiuto: medici, psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, insegnanti, eccetera. Questi professionisti sono più efficaci se accolgono le persone che si affidano a loro con profondo rispetto e comprensione empatica e promuovono lo sviluppo delle risorse dei loro utenti (empowerment ).
Ciò permette ad entrambi, in un clima di reciproca fiducia di raggiungere meglio obiettivi condivisi. Trattare gli utenti umanamente è un dovere per un professionista, non è solo buon cuore ma buona scienza, una soluzione vincente per tutta la società: l'evidenza scientifica mostra come una buona relazione professionista-utente permette di ottenere migliori risultati, risparmiare inutili sofferenze e ridurre lo spreco di denaro pubblico e privato. Per divenire più efficaci i mondi della medicina, della psicologia, della scuola, del lavoro devono ampliare la loro ottica, acquisire nuovi strumenti per centrarsi sulle persone e favorire lo sviluppo delle loro potenzialità. Questo non è un problema di fondi, ma di come vengono stabilite le priorità. Centrarsi sulle persone - a maggiore risorsa naturale per una nazione- ha un rapporto positivo costi/benefici.
Le ricerche, incluse quelle provenienti dalle neuroscienze, mostrano che le nostre capacità di centrarsi sulle persone sono innate, ma che sovente in molti di noi esse si indeboliscono, per il tipo di formazione ricevuta ed altro; tali carenze possono essere colmate attraverso specifici percorsi formativi che facilitano lo sviluppo di relazioni efficaci. Le capacità di avere buone relazioni interpersonali caratterizzate da rispetto e comprensione reciproca caratterizzano anche le coppie efficaci, i genitori efficaci, i gruppi di lavoro efficaci. Particolarmente apprezzati al congresso mondiale gli interventi del celebre Barrett Lennard, presidente onorario dello IACP, autore dell’omonima scala che misura la qualità della relazione professionista-cliente, impiegata in più di mille ricerche sul campo. Molto applauditi anche Les Greenberg, Robert Elliott e Jeanne Watson, membri del comitato scientifico della ricerca internazionale sull’efficacia della formazione degli psicoterapeuti centrati sulla persona.
Tra gli interventi italiani particolarmente apprezzati quelli di Adolfo Arcangeli, past-president dei medici diabetologi, e Stefano Fratini dello IACP, che presentavano una ricerca sugli effetti positivi che il gruppo d’incontro rogersiano ha su dei giovani diabetici di Prato (Firenze). Molto seguita anche la tavola rotonda sulla medicina centrata sulla persona con Marina Maggini dell’Istituto Superiore della Sanità, Mario Falcone, Presidente Ordine dei Medici Provincia di Roma, Aldo Maldonato, docente all'Università di Roma e anima della Educazione terapeutica in Italia e Gianni Sulprizio (IACP), oppure la presentazione dell’On. Domenico Naccari, Consigliere del Comune di Roma, Tilde Minasi, Assessore alle Politiche Sociali di Reggio Calabria e Dominella Quagliata (IACP) sui risultati molto incoraggianti del counselling center, che lo IACP ha creato con il Comune di Reggio e che pensiamo di realizzare anche nella capitale.
Come vengono applicate in Italia le politiche della relazione di aiuto relative alla promozione ed allo sviluppo delle risorse umane?
Tutti i professionisti usano il potere per promuovere il cambiamento dei loro utenti. Il rischio di reificazione è evidente, quando vi sia un uso indiscriminato e non responsabile del potere. Le modalità dell’uso del potere e l’ampiezza del differenziale di potere tra professionista e utente discendono dalla visione della natura umana, caratteristica di ogni paradigma ed impiegata per definire e gestire i setting e la specifica relazione di aiuto. Ogni approccio promuove maggiori o minori livelli di empowerment degli utenti: questo comporta responsabilità sia sul piano etico che su quello morale e necessita un costante monitoraggio dall'autoconsapevolezza per evitare abusi di potere ed effetti iatrogeni.
E’ necessario promuovere maggiore consapevolezza sulla costruzione sociale dei professionisti, perché anche se un concetto di base della sociologia della conoscenza è che la realtà è socialmente costruita e quindi lo sono anche le realtà scientifiche e l’addestramento dei professionisti, purtroppo ancora in Italia non siamo o non si vuole essere sufficientemente consapevoli che i professionisti vengono socialmente costruiti e che i modelli impliciti della gestione del potere vengono proposti nei corsi di laurea e di specializzazione. Questa realtà socialmente costruita avviene mediante i modelli relazionali proposti: dalle modalità di come l’università si relaziona con i professori, i ricercatori e gli studenti e come il corpo docente si relazione ed usa il potere con il corpo discente. Questo noi lo vediamo sottolineato nei nostri corsi di specializzazione in psicoterapia frequentati da laureati in psicologia e medicina: gli specializzandi non sono in genere consapevoli del loro uso del potere nei confronti dell’utente e quanto sono d’impatto le modalità usate per avvicinarsi ad un altro essere umano specialmente nel caso in cui l’utente ricorra al professionista perché sta attraversando un momento difficile.
Ancora una volta sottolineo quello che è basilare da molti anni e fa parte addirittura del manifesto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la famosa Carta di Ottawa, che nell'ormai lontano 1986 sollecitava governi e cittadini: “La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla … la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere … Le persone non possono raggiungere il loro pieno potenziale di salute se non sono capaci di controllare quei fattori che determinano la loro salute ” … “ … La salute non è mera assenza di malattie ma sviluppo del potenziale umano ...” .
In un periodo definito di scarsa disponibilità di risorse finanziarie, come impostare -a suo avviso- una politica di implementazione delle risorse umane, che comunque necessita di sostegno all’aggiornamento ed alla formazione?
E’ vero che stiamo attraversando un periodo difficile per l’economia, ma proprio per questo investire nel capitale umano è oggi ancor più necessario. Purtroppo per ignoranza diffusa, nei momenti di crisi, il tipico comportamento delle aziende pubbliche e private è quello di tagliare gli investimenti della formazione e dello sviluppo delle risorse umane. Questa è una politica errata e cieca: tutti gli esperti di Sviluppo Organizzativo sono d’accordo nel sottolineare e le ricerche ribadiscono che la cosa più lungimirante da fare nei momenti di crisi è potenziare in modo mirato gli investimenti sulle risorse umane e sull’’innovazione, poiché tali investimenti generano il valore aggiunto.
Del resto questo principio è da sempre adottato dalle persone di buon senso: si fa un’accurata manutenzione al bene acquistato per evitarne il deterioramento. Mai dimenticare che la risorsa più preziosa per una organizzazione, una comunità ed una nazione sono le persone: il vero capitale è il capitale umano. Questo vale anche per i corsi di specializzazione in psicoterapia eccetera. Oggi un professionista deve essere ben consapevole che essere un professionista vuol dire professare. Professare valori. Il valore fondamentale per un professionista è quello di operare sempre in scienza e coscienza per promuovere gli interessi degli utenti; questo presuppone l’applicazione del paradigma bio-psico-sociale e centrarsi sulle persone: il sapere, saper fare e saper essere capaci e aggiornati per accogliere l’altro con rispetto ed offrirgli un luogo sicuro dove riprendere forza, sviluppare le proprie potenzialità e stabilire un rapporto migliore con se stessi, gli altri ed il mondo.
Per chiarire che non sto parlando di utopie ma di professionisti che hanno una buona bussola per navigare in questa epoca densa di cambiamenti farò un esempio concreto: un progetto che stiamo sviluppando attualmente è focalizzato a promuovere l’autoefficacia e l’auto imprenditorialità di disoccupati lungodegenti. Da tempo le forme assistenziali di welfare si sono rivelate fallimentari da più punti di vista: non ci sono più fondi per sostenerle, ma soprattutto ci siamo accorti che pur non volendolo hanno passivizzato cittadini che di aiuto avevano veramente bisogno; ma non per sopravvivere e perdere il rispetto di sé: Il bisogno concreto è quello di divenire più efficaci nel gestire la propria vita: sviluppare meglio la capacità di rimboccarsi le maniche e far fronte alle emergenze. Politiche lungimiranti mirano a massimizzare il capitale umano e le politiche di empowerment e responsabilizzazione sono le più idonee per il raggiungimento di tali scopi.

Fonte: www.agenziaradicale.com

lunedì 31 maggio 2010

Scoperto un nuovo sistema per rigenerare i neuroni



Un nuovo sistema per rigenerare i neuroni, potenziale speranza contro Alzheimer o ictus. Ricercatori in parte finanziati dall’UE hanno convertito le cellule gliali del cervello in due diverse classi funzionali di neuroni.

I loro risultati, pubblicati sulla rivista 
Public Library of Science (PLoS) Biology, potrebbero portare a importanti progressi nel trattamento delle malattie neurodegenerative. Lo studio è stato in parte finanziato dal progetto EUTRACC («European transcriptome, regulome and cellular commitment consortium»), che è sostenuto con 12 milioni di euro nell’ambito dell’area tematica «Scienze della vita, genomica e biotecnologie per la salute» del Sesto programma quadro.

Le cellule gliali (o cellule della glia), comunemente conosciute come il collante del sistema nervoso, circondano i neuroni responsabili della trasmissione delle informazioni. Le cellule gliali forniscono sostanze nutritive e ossigeno ai neuroni, e li isolano gli uni dagli altri. Inoltre li proteggono dagli agenti patogeni e rimuovono i neuroni morti.

Questo nuovo studio si è focalizzato sulle astroglia (cellule gliali a forma di stella), uno dei più comuni tipi di cellule gliali. Le astroglia hanno diverse proiezioni che fanno da impalcatura di sostegno per i neuroni. Sono inoltre strettamente legate alle cellule gliali radiali. Durante lo sviluppo embrionale del cervello, queste cellule gliali radiali o si trasformano in neuroni o fungono da impalcatura su cui eseguire la migrazione dei neuroni neonati.

Mentre le astroglia normalmente non hanno il potenziale di generare neuroni, il gruppo di ricerca della professoressa Magdalena Gotz e del dottor Benedikt Berninger, del Centro Helmholtz di Monaco di Baviera, in Germania, è riuscito a provocare la loro conversione in due principali classi di neuroni corticali. Più precisamente, le astroglia sono state convertite in neuroni eccitatori e inibitori che eccitano o inibiscono l’azione nella cellula bersaglio.

Questi risultati sono stati raggiunti grazie all’espressione selettiva di specifici fattori di trascrizione, ovvero di proteine che si legano a sequenze specifiche del DNA e quindi controllano il trasferimento delle informazioni genetiche.

«In questo studio siamo riusciti a riprogrammare i neuroni appena creati, rendendoli capaci di sviluppare delle sinapsi funzionanti. Queste rilasciano - a seconda del fattore di trascrizione utilizzato - sostanze neurotrasmettitrici eccitatorie o inibitorie», dice l’autore principale dello studio, il dottor Christophe Heinrichs della Ludwig Maximilians Universitat (LMU) di Monaco di Baviera (Germania).

«I nostri risultati lasciano sperare che la barriera che separa le cellule neuronali e le astroglia - strettamente connesse tra loro - non sia insormontabile», aggiunge il dottor Berninger.

FONTE: www.lastampa.it

domenica 11 aprile 2010

"La psicoterapia funziona nel 75% dei casi"




















I dati di Peter Fonagy, direttore del dipartimento di Psicologia Clinica presso lo University College di Londra
La psicoterapia è efficace nel 75% dei pazienti, rispetto ai pazienti non trattati". Con queste parole Peter Fonagy, direttore del dipartimento di Psicologia Clinica presso lo University College di Londra, presidente del Centro Anna Freud della capitale inglese e coautore del volume «Psicoterapie e prove di efficacia. Quale terapia per quale paziente?», ha descritto, al XIII Congresso dell'Escap, le prospettive e l'efficacia dell'intervento psicoterapico (basato, per definizione, sull' incontro non medicalizzato tra medico e paziente).


"L'integrazione delle cure con un adeguato percorso di psicoterapia - ha spiegato Fonagy - è necessaria anche nella psichiatria infantile. In particolare, a seconda del tipo di disturbo, l'impiego di una psicoterapia specifica per quel disagio presenta una efficacia non inferiore al 50% fino a portare ad un miglioramento clinico anche del 90% dei casi. A confronto con la terapia meramente farmacologia, l'intervento psicoterapico garantisce un'efficacia significativa senza indurre gli effetti collaterali, che, soprattutto per alcuni farmaci, possono avere conseguenze di rilievo".
Il professor Fonagy ha, inoltre, evidenziato l'importanza del «problem solving» (collaborazione terapeuta-famiglia nell'esercitarsi ad individuare strategie di soluzione dei problemi secondari al disagio mentale presente) e del «parent training» (sedute di psicoterapia coinvolgenti i genitori del piccolo paziente) nella cura dei disturbi d'ansia, disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività (Adhd), sindrome depressiva e disturbi della condotta.
"L'ambiente familiare costituisce - ha sottolineato Fonagy - per i pazienti in età adolescenziale e infantile, il laboratorio nel quale si testano gli interventi psicoterapici formulati in ambito ambulatoriale; trattare il paziente senza occuparsi del contesto ambientale nel quale cresce e si sviluppa significa operare un cambiamento nell'individuo, senza però modificare efficacemente lo stile relazionale domiciliare patologico nel quale il disagio si è sviluppato. Lo psicoterapeuta per l'infanzia e l'adolescenza deve agire nel contesto familiare con uno stile "da detective, come il tenente Colombo", interessandosi a come i membri della famiglia si relazionano tra loro ed educano i figli, senza proporsi come un educatore alternativo".
"Tutti gli indirizzi psicoterapici presentano - ha concluso Fonagy - un denominatore comune ed una forza universale: nella stanza del terapeuta troviamo sempre due menti consapevoli della propria persona (terapeuta e paziente) che lavorano insieme ad un percorso comune».
tratto da:http://lanazione.ilsole24ore.com

domenica 21 marzo 2010

Sotto il segno dell’ambiguità è la generazione “bi-curious”








Mutano, si nascondono, giocano con l´ambiguità. Ragazzi nell´età incerta, che scoprono se stessi, la sessualità, il corpo che cambia, e sperimentano sempre più territori di confine. Non solo "etero" dunque, ma anche "omo" e soprattutto "bisex". Hanno tra i quattordici e i diciotto anni e fanno parte di un movimento young-adult che in tutto il mondo ha fatto dell´ambiguità il proprio modo di amare. Le ragazze camminano mano nella mano, provano baci e carezze, i maschi si fermano ad abbracci più virili ma più espliciti di un tempo: più che bisex molti si definiscono bi-curious, curiosi doppiamente, si vestono con stile androgino, si ispirano all´inquieto movimento "Emo", si incontrano e si confidano in una galassia di siti e blog dove raccontano la loro ambiguità.





Un fenomeno così vasto e dichiarato, un outing così collettivo, che ormai da diversi mesi psicologi, sociologi, medici (ma anche cacciatori di tendenze) hanno messo il fenomeno dei teenager bisex sotto la lente di ingrandimento. Per capire se qualcosa è davvero cambiato nella sessualità dei giovani. O se invece gli adolescenti non abbiano semplicemente smesso di nascondere la loro indefinitezza sessuale. In una recente ricerca dell´Istituto di ortofonologia di Roma, è stato calcolato che tra gli undici e i sedici anni il 35 per cento delle ragazze, e addirittura il 60 per cento dei ragazzi, si è avvicinato o ha provato l´esperienza omosessuale.
Ma, al di là dei numeri, per Francesca Sartori, docente di Sociologia del genere all´università di Trento, tutto questo è la spia di un «forte cambiamento culturale». «L´adolescenza è l´età dell´onnipotenza, del voler provare tutto. La novità è che questa generazione sembra voler fare della propria ambiguità un modo di essere, una bandiera


Del resto questi teenager sono i figli di una società dove i ruoli tradizionali sono caduti, dove la confusione è forte, dove la moda, proprio sfruttando queste tendenze giovanili, propone immagini efebiche di maschi glabri e femmine senza seno, quasi indistinguibili. A mio parere però - aggiunge Sartori - è un azzardo parlare di gioventù bisex, perché è soltanto un´avanguardia trasgressiva che gioca con questi ruoli. E tra qualche anno capiremo se si tratta di "effetto età" o di un vero cambiamento. È certo, però, che gli adolescenti sperimentano una nuova libertà, ma anche un nuovo modo di non definirsi».






L´ultimo rapporto della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia, segnala che gli adolescenti hanno le loro prime esperienze sessuali tra i quattordici e i sedici anni. Ed è in quel momento che la sperimentazione sessuale abbraccia più strade e più forme. E dove la scuola funge da terreno di conoscenza. Un tema a cui Federico Batini, ricercatore di Pedagogia all´università di Perugia, ha dedicato L´identità sessuale a scuola. «La bisessualità nell´adolescenza è sempre esistita, ma adesso non è più un tabù. Però il vero problema è che ai ragazzi mancano gli strumenti per decodificare ciò che gli accade, della sessualità sanno ciò che scoprono su Internet, spesso in modo grossolano e non selezionato. In famiglia il discorso non viene affrontato e a scuola non se ne parla affatto. La verità - conclude - è che non esiste per i giovani una alfabetizzazione sessuale».

Legge invece il diffondersi della bisessualità tra gli adolescenti come un problema legato al riconoscimento di sé Simonetta Putti, psicologa e psicoterapeuta, curatrice di un saggio a più voci dal titolo: Chirone, dinamiche dell´identità di genere. «Il disagio esistenziale è oggi un dato diffuso anche tra adolescenti e ragazzi. E se la sessualità non costituisce più un´area di divieto da parte dei genitori, è l´area dell´affettività e del sentimento ad essere in difficoltà, e sempre più "tecnomediata" da Internet, mail, sms. E infatti, dietro questa crisi dell´identità di genere, c´è a mio parere la forte crisi di identità di questa generazione»..



di Maria Novella de Luca

Tratto da www.larepubblica.it/salute



domenica 14 marzo 2010

Pochi istanti per capire un errore, il segreto dell’intuito femminile






Che le donne siano più empatiche degli uomini non è un mistero. Ma che riescano a riconoscere un errore in 200 millisecondi è una scoperta che si deve al Consiglio nazionale per la ricerca e dall'Università di Milano-Bicocca. Il segreto sta nei 'neuroni specchio' che riconoscono azioni inappropriate in un tempo breve. E lo fanno perché funzionano permettendo una comunicazione non linguistica fra i cervelli. In pratica agiscono così: se quel che fai tu è simile a quel che potrei fare io, allora io sono simile a te. E così, secondo i ricercatori, le nostre scelte non obbediscono solo a criteri di razionalità. Ma, in alcuni casi, dipendono da processi neuronali che si attivano nel momento in cui osserviamo un'azione 'sbagliata' inducendoci, per esempio, a non imitarla.



Per comprendere la capacità della donna di individuare prima dell'uomo uno sbaglio, il gruppo di ricerca di Alice Mado Proverbio dell'Università di Milano-Bicocca insieme a Federica Riva e Alberto Zani dell'Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare (Ibfm) del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano ha registrato i potenziali bioelettrici cerebrali negli esseri umani alla ricerca dei 'neuroni specchio', già identificati nella scimmia con registrazione da singola cellula. 


Al gruppo campione sono state sottoposte centinaia di immagini che ritraggono persone mentre compiono un'azione appartenente al normale repertorio comportamentale dell'essere umano mettendole in contrasto con altre prive di scopo. Fare un bagno, scrivere una ricetta o brindare, appaiate con altre dalla finalità incomprensibile, come stare in piedi su una gamba sola nel deserto, succhiare da una cannuccia posta nella coppa dell'olio di un'automobile o aprire un uovo alla coque con l'accetta.


“Agli osservatori – spiega ancora Mado Proverbio – non veniva chiesto di valutare l'appropriatezza delle scene, ma di rispondere alla comparsa di paesaggi urbani o naturali, allo scopo di evitare processi decisionali guidati da variabili soggettive, come l'etica o la morale". Stando ai risultati, pubblicati su Neuropsychologia, il riconoscimento automatico delle immagini dotate di scopo e la distinzione da quelle inappropriate avveniva in 170-200 millisecondi (ms) post-stimolo,soprattutto nel cervello femminile che evidenzia un'elaborazione più rapida. E in particolare: "Dopo circa 450-600 ms si osserva il picco della risposta negativa ai gesti improbabili e inappropriati, con una connotazione di tale reazione più affettiva nella donna e più razionale nell'uomo". 


"È noto – spiega la ricercatrice Alice Mado Proverbio – che azioni dotate di scopo, come raccogliere un frutto per mangiarlo, attivano i 'neuroni specchio' in misura maggiore rispetto a gesti meno salienti, per esempio, raggiungere un frutto senza raccoglierlo, oppure raccoglierlo per poi gettarlo via". E i dati dunque suggeriscono una maggiore suscettibilità femminile alle azioni incongruenti e forniscono nuove prove dell'esistenza dei 'neuroni specchio' anche negli esseri umani, oltre che nei primati, e del loro ruolo nei comportamentali sociali complessi di imitazione, apprendimento e valutazione dell'appropriatezza.
(Marzo 8, 2010)
Tratto da:La Repubblica /Salute



venerdì 1 gennaio 2010

30 MILIONI DI DOLLARI PER IL CONNETTOMA


AUTORE: DANIELA OVADIA
Postato in Neurofisiologia, Neuroimaging, Neuroscienze, progetti di ricerca il 26 agosto, 2009

TRATTO DA: http://ovadialescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/







Causa vacanze non abbiamo avuto modo di parlarne: il mese scorso i National Institutes of Health statunitensi hanno ufficialmente lanciato il Progetto Connettoma Umano, finanziandolo con 30 milioni di dollari. Obiettivo: tracciare, entro il 2015, una mappa delle connessioni tra le aree cerebrali nel cervello umano sano, per capire come vengono processate le informazioni. Tra gli altri obiettivi dichiarati anche quelli di mettere a punto nuovi farmaci per le malattie neurodegenerative e per il dolore: risultati pratici che suonano più come giustificativi per far digerire al contribuente americano l’entità dell’investimento su un progetto che ha invece tutte le caratteristiche della ricerca di base.
Ormai gli Stati Uniti sono convinti sostenitori della “big science”, che richiede di unire gli sforzi su un obiettivo preciso da ottenere entro un termine prestabilito. E per far ciò, ovviamente, si mettono i soldi sui grandi progetti, magari a scapito di altri più modesti. Col genoma ha funzionato, con le staminali un po’ meno: vedremo cosa accadrà col cervello. Nel caso specifico, la “colpa” è di Olaf Sporn, un neuroscienziato dell’università dell’Indiana che, nel 2005, ha scritto un articolo per reclamare a gran voce una “mappa di navigazione” di quel “territorio sconosciuto che è il nostro cervello”.
Ora il progetto c’è, anche perché solo da qualche anno ci sono i mezzi tecnici per attuarlo: l’imaging in vivo consente di vedere il percorso di attivazione delle aree cerebrale sulle tre dimensioni e quindi di tracciarne la mappa. Non tutti, però, sono convinti che il connettoma, così come definito dal progetto degli NIH, costituisca un vero passo avanti nella comprensione del funzionamento cerebrale, poiché traccerà solo le “autostrade” della trasmissione nervosa, mentre molti scenziati sono ormai convinti che è a livello del singolo neurone che si svolge il vero lavoro computazionale del cervello. Anche l’unico connettoma disponibile, quello del verme Caenorhabditis elegans, dotato di 320 neuroni, sembra confermarlo. E quindi noi umani, che di neuroni ne abbiamo circa 100 miliardi, per capire qualcosa del nostro cervello dovremmo aspettare ancora un po’, senza contare che la quantità di dati che si dovranno processare per arrivare a una risoluzione talmente piccola sarà tale da far sembrare il Progetto Genoma semplice come uno di quei grandi puzzle di legno che si usano alla scuola materna.
I più ottimisti sperano di arrivare a capire come funzioniamo partendo dai due estremi della questione: dall’aspetto macroscopico della connessione tra aree cerebrali, grazie al progetto dell’NIH; e dal lavoro certosino di unione e comparazione delle singole vie neuronali effettuato da chi lavora a livello microscopico, per esempio con la registrazione dell’attività di singoli neuroni mediante elettrodi intracranici.
Sporn e i sostenitori del Progetto Connettoma Umano, invece, replicano che la mappa neurone per neurone non sarà necessaria: e hanno dalla loro lo studio dei fenomeni complessi che utilizza strumenti matematici avanzati per descrivere processi che coinvolgono un numero enorme di variabili, molte delle quali sconosciute. “Per descrivere un processo economico non andiamo certo a verificare quello che ogni singolo cittadino mette nel carrello della spesa” ha detto Sporn.
Quel che è certo, è che i grandi progetti di questo tipo sono un fertlizzante naturale per lo sviluppo del ramo che coinvolgono e, inoltre, garantiscono un certo risparmio di forze, evitando, per esempio, le duplicazioni. Grazie alle banche dati del Progetto Genoma molti laboratori hanno scoperto che stavano sequenziando lo stesso gene e hanno unito i loro risultati, dando un’accelerata al processo. Comunque sia, i bandi di finanziamento per questa nuova impresa sono disponibili sul sito degli NIH e val la pena osservare con attenzione cosa ne verrà fuori.